Il linguaggio umano è ancora ad oggi uno degli aspetti della cognizione più complessi da studiare e comprendere. Quali sono le basi biologiche che permettono a un bambino di acquisire almeno una lingua solo venendone esposto? Quand’è emersa questa capacità nella specie umana? Quali geni e processi molecolari sono coinvolti? Com’è implementata a livello neurale la competenza di una lingua? Queste sono alcune delle domande che linguisti, psicologi, biologi, paleoantropologi e neuroscienziati si pongono da almeno mezzo secolo [1].

Nella seconda metà degli anni ’90 in alcuni componenti di una famiglia britannica, la cosiddetta “famiglia KE”, è stata identificata una rara mutazione genetica ereditaria, successivamente localizzata nel gene FOXP2, il quale gioca un ruolo importante nello sviluppo cerebrale regolando l’attività di altri geni; tale mutazione causava disturbi sia nella produzione che nella comprensione del linguaggio [2]. Nonostante all’epoca il giornalismo non specialistico abbia salutato lo studio come la “scoperta del gene per il linguaggio”, ad oggi è chiaro che un tratto così complesso non può essere determinato da un solo gene, ma che esso emerga dall’interazione di una rete estesa e molto intricata.

La scoperta ha comunque avuto un’importanza grandissima, e ha il merito di aver identificato un punto di partenza e di aver inaugurato un approccio genetico al problema, sia per quanto riguarda fenotipi patologici negli umani, sia per l’utilizzo di modelli animali. Successivamente a questa scoperta, infatti, si è iniziato anche a studiare il comportamento, la neurobiologia e la genetica di altri animali per fare luce su aspetti del linguaggio umano. Chiaramente, nessuna specie possiede un linguaggio come il nostro, ma lo studio comparativo può fornire informazioni utili per far avanzare la nostra comprensione.

Taeniopygia guttata (Alex Antal©)

Tra gli animali più studiati in relazione a FOXP2 c’è il diamante mandarino (Taeniopygia guttata). Questa specie fa parte degli uccelli ‘vocal learner’, specie aviarie che presentano un comportamento vocale molto complesso che viene acquisito durante il primo periodo post-natale, similmente a come un bambino acquisisce il linguaggio orale; nel caso di mancata esposizione al canto di un esemplare della stessa specie, questa abilità non si sviluppa in modo corretto e risulta inefficiente, con sequenze vocali “sbagliate”. Questo ha un parallelismo con l’acquisizione del linguaggio nei bambini: se nel periodo critico il bambino non viene esposto a una lingua, lo sviluppo del linguaggio è compromesso e solo parzialmente recuperabile successivamente. Questo ha portato a studiare FOXP2 nel diamante mandarino e in altri uccelli ‘vocal learner’, e si è scoperto che la proteina è presente in misura maggiore durante la fase di apprendimento in un’area del cervello degli uccelli chiamata Area X, necessaria per lo sviluppo di questo comportamento [3].

Rousettus aegyptiacus (Serge Malevanny©)

È in questo contesto che si inserisce lo studio di alcune specie di pipistrelli (Chiroptera) [4]. Si pensa infatti che circa metà delle 18 famiglie di pipistrelli siano ‘vocal learner’, un comportamento presente in pochi mammiferi (cetacei, elefanti e pinnipedi – foche e leoni marini; tra i primati, ad oggi l’essere umano sembra essere l’unico). Data la facilità con cui possono essere tenuti in laboratorio, i pipistrelli permettono quindi per la prima volta di studiare le basi genetiche dell’apprendimento vocale nei mammiferi. I chiroptera infatti utilizzano un complesso sistema di vocalizzazioni, sia per la comunicazione che per la navigazione. Come per gli umani, il loro cervello possiede aree altamente specializzate nell’elaborazione di informazione uditiva. Sono inoltre animali altamente sociali, e l’apprendimento vocale è strettamente legato all’interazione tra cucciolo e madre. I cuccioli, inoltre, nei primi stadi dell’apprendimento vocale, presentano un comportamento straordinariamente vicino alla lallazione nei neonati (cioè la tipica produzione pre-linguistica che emerge a partire dal sesto-settimo mese di età, caratterizzata dalla ripetizione di sillabe molto semplici). Un’altra caratteristica che rende lo studio della comunicazione animale rilevante per la comunicazione umana è il ‘turn-taking’: durante una conversazione, infatti, si rispettano dei ‘turni’; è così anche in altre specie, tra cui i pipistrelli.

Queste specie rappresentano quindi un’importante fonte di nuove informazioni su un comportamento che sembra essere piuttosto raro in natura. I ricercatori si stanno già muovendo in questo senso: il 14 novembre scorso, durante l’ultimo meeting della Society for Neuroscience tenutosi a San Diego, California, Sonja Vernes del Dipartimento di Linguaggio e Genetica del Max Planck Institute for Psycholinguistics di Nimega, Paesi Bassi, ha annunciato un nuovo progetto, chiamato Bat 1K. Lo scopo è di mappare il genoma di oltre 1000 specie di pipistrelli per comprendere meglio questo animale, e fare così luce anche sull’evoluzione dell’apprendimento vocale nei mammiferi [5].

Nonostante quindi non ci sia nel regno animale nessun sistema analogo al linguaggio umano, i modelli animali si stanno rivelando sempre più importanti per comprendere le basi biologiche e la storia evolutiva di almeno alcuni degli aspetti che fanno parte di questa nostra capacità, in un approccio altamente interdisciplinare e comparativo.

Riferimenti

[1] Boeckx (2013). Biolinguistics: forays into human cognitive biology. Journal of Anthropological Sciences. [https://goo.gl/2tbjVO (PDF)]

[2] Lai et al. (2001). A forkhead-domain gene is mutated in a severe speech and language disorder. Nature. [https://goo.gl/2iovNe]

[3] Haesler et al. (2004) FoxP2 Expression in Avian Vocal Learners and Non-Learners. The Journal of Neuroscience. [https://goo.gl/gX0Brp]

[4] Vernes (2016). What bats have to say about speech and language. Psychonomic Bulletin & Review. [https://goo.gl/wcnWH9]

[5] “Geneticists hope to unlock secrets of bats’ complex sounds”, Nature News, 18 novembre 2016. [https://goo.gl/Qw0NvI]