Si è conclusa il giorno 8 aprile a Bologna l’assemblea nazionale 2016 dell’Associazione Nazionale dei Biotecnologi Italiani (ANBI), presso l’aula magna del nuovo Polo scientifico del quartiere Navile.

In questa edizione dal titolo “Ricerca e innovazione biotecnologica: le certezze di oggi per il progresso di domani” si sono toccati temi importanti e delicati per il mondo della ricerca, quali la frode scientifica nelle pubblicazioni e la sicurezza in laboratorio.

 

image09L’incontro mediato da Davide Ederle, direttore di Prometeus 3.0, il magazine online di ANBI, si svolge in un clima vivace volto a coinvolgere attivamente il pubblico, costituito in maggioranza dagli studenti dei corsi di laurea in Biotecnologie dell’Università di Bologna.

Citando un articolo del Sole24Ore del 2015 dal titolo “Largo alle biotecnologie”, Ederle rompe il ghiaccio sottolineando l’ampio ventaglio di opportunità offerto ai laureati in biotecnologie, che spazia dall’industria farmaceutica agli organismi di prevenzione ambientale, portando fino a sbocchi di carriera nel business development, consulenze in società di trasferimento tecnologico e società di managment. “Essere biotecnologi è la scelta giusta, perchè il biotech italiano in questo periodo di recessione è in una fase anticiclica e sta dimostrando di essere un settore che non solo tiene, ma cresce” ha dichiarato.

Ricorda che tutto il mercato della “bioeconomia” crea un valore in Italia di 250.000.000 euro e 1.500.000 occupati. Grazie a delle innovazioni importanti le biotech italiane hanno raggiunto le prime pagine di molti giornali (non solo di settore); ne sono esempi la prima registrazione europea di un farmaco a base di cellule staminali e la prima bioraffineria di seconda generazione per la produzione di etanolo. “Nonostante la difficoltà nel fare ricerca in Italia nel nostro settore, la produttività dei ricercatori italiani per ogni euro investito in ricerca è al primo/secondo posto mondiale, manca la capacità di mettere a sistema il settore, la capacità di attrarre maggiori finanziamenti, di avere professionalità che abbiano una capacità imprenditoriale oltre al profilo scientifico elevato”.

 

image10Prende poi la parola il Prof. Capranico, presidente del CdS in Biotecnologie, per i saluti da parte dell’Università di Bologna.

“Sono orgoglioso che il primo convegno tenuto in quest’aula dalla sua costruzione, sia organizzato dalla Associazione Nazionale dei Biotecnologie Italiani. Il contributo dell’Università di Bologna alla biotecnologie in Italia è quello della formazione ed il nostro corso in Biotecnologie è stato uno dei primi a essere istituiti in Italia. L’edificio in cui ci troviamo viene utilizzato a partire da questo anno accademico dagli studenti. Come potete notare siamo ancora circondati da un cantiere: qui intorno nascerà un nuovo campus che accoglierà le competenze di Biotecnologie insieme a quelle di Chimica e Farmacia; inoltre qui vicino c’è il CNR quindi si potrà creare una sinergia per potenziale sia la ricerca che la formazione”.

 

image02Il primo a intervenire è Enrico Bucci; CEO e CSO di BioDigitalValley Srl, che porta una presentazione del titolo “Fabbricazione, falsificazione, plagio: i tre peccati capitali della ricerca scientifica”. Il Prof. Infascelli è colui che è stato più volte citato per aver pretesamente dimostrato che gli OGM sono dannosi per la salute. Nelle sue pubblicazioni come veterinario, egli avrebbe dimostrato che gli animali alimentati con OGM, integrino in qualche modo nei propri tessuti il DNA estraneo geneticamente modificato e questo produrrebbe danni alla salute del consumatore che beve il latte ricavato da questi animali. Ciò comporta delle ripercussioni anche economiche, basti pensare alle etichette dei prodotti OGM-free sugli scaffali dei supermercati. Tutte le sue pubblicazioni, si è recentemente scoperto, riportano dati falsificati. “Il punto in discussione non è capire se l’ipotesi sia vera o falsa, il punto è che se io sono uno scienziato, non posso utilizzare dati falsi a supporto di un’ipotesi, financo fosse vera. Nel caso specifico di Infascelli la cosa è peggio che essere falsa, non sappiamo ne se è falsa ne se è vera, sappiamo solo che i dati sono falsi” sottolinea Bucci, che chiarisce poi cos’è una frode scientifica. “La cattiva condotta nel nostro ambito professionale va da comportamenti che portano a un vantaggio personale, come la cosiddetta gift authorship (ovvero quando faccio un regalo a qualcuno citando il suo nome tra gli autori di una mia pubblicazione, per ottenere qualcosa in cambio), fino a comportamenti che danneggiano l’intera comunità scientifica, come nel caso in cui faccio passare per veri dei dati falsi”.

La frode scientifica consiste in tre tipi di comportamento legati ai dati:

  • fabbricazione; ovvero posso inventare da zero i dati senza aver mai fatto nessun esperimento
  • falsificazione; ovvero dopo aver ottenuto i risultati dai miei esperimenti, modifico i dati per dare forza alla mia ipotesi
  • plagio; ovvero posso copiare i dati di un altro studio e ricopiarli all’infinito nella mia letteratura, dando così forza statistica alla mia ipotesi

Se prendiamo i casi in cui è stata accertata l’intenzionalità di una frode denunciati all’Office of Research Integrity, (la prima istituzione al mondo che ha cominciato negli Stati Uniti a decidere dei regolamenti per gestire le denunce e guidare le investigazioni) scopriamo che il 70% di essi ha a che vedere con la manipolazione delle immagini pubblicate. “l’immagine in un articolo scientifico non è un illustrazione, ma un dato su cui si fanno misure, che serve a dimostrare che un esperimento ha avuto un certo esito” dice Bucci. Spiega poi come la capacità di manipolazione delle immagini si sia radicalmente trasformata negli anni, passando da un processo complicato che richiedeva precisione certosina e capacità artistiche, ad una operazione banale alla portata di chiunque (grazie anche all’avvento delle immagini digitali). Vengono citati casi famosi di fabbricazione di immagini in pubblicazioni scientifiche, come quello che nel 2014 ha coinvolto Obokata e Sasa, due ricercatori giapponesi che pubblicarono due articoli su Nature in cui dimostravano di aver inventato un nuovo metodo per ottenere cellule staminali pluripotenti (ossia in grado di differenziarsi in tipi cellulari diversi sotto opportuni stimoli) mentre in realtà tutte le immagini presenti negli articoli erano state manipolate. A seguire altri esempi famosi di falsificazione come lo Scandalo Schon, accaduto nel 2011 negli Stati Uniti e la frode del dott. Bugiardini, che ha suscitato grande clamore nel 2014 a Bologna.

Ma cosa spinge un ricercatore a commettere una frode?

Secondo Bucci il movente principale risiede nel sistema “Publish or Perish” che subordina quasi completamente gli avanzamenti di carriera di un ricercatore al numero di pubblicazioni attribuitegli.

Il problema è che “nessuno controlla” ammette: ogni anno vengono indicizzati su PubMed milioni di articoli di cui oltre l’80% non vengono letti da nessuno. “Io ho studiato tanto e so che la mia ipotesi deve essere vera, allora la pubblico supportandola con dati manipolati pur di arrivare per primo, tanto poi altri la dimostreranno” questo sarebbe il ragionamento comune di chi commette frode dice Bucci, lo stesso ragionamento che avrebbe portato lo psicologo olandese Diederik Strapel a falsificare i numeri dei dati sperimentali in dozzine di articoli pubblicati. “L’idea che la scienza si auto-corregga attraverso la peer review è essenzialmente falsa” sostiene, non serve cioè a rivelare le frodi: per provarlo, il biologo e giornalista scientifico Bahannon fingendosi medico è riuscito a pubblicare un articolo deliberatamente falsificato in cui dimostrava le proprietà dimagranti del cioccolato. “C’è una spinta derivante dalla spettacolarizzazione della ricerca che produce fondi per la ricerca, basti pensare che gli uffici stampa di Harvard grazie alla comunicazione sulle scoperte scientifiche, sono responsabili per 36.000.000.000 del fatturato dell’intera Università”. Per concludere viene sollevato il problema della scarsa visibilità della frode scientifica agli occhi del sistema giudiziario italiano (nonostante in alcuni paesi europei la faccenda sia presa maggiormente sul serio, prevedendo addirittura la galera in Inghilterra). Nonostante il CNR abbia istituito da poco delle Linee Guida per l’Integrità della Ricerca e l’Università Federico II di Napoli abbia pubblicato un regolamento anti-frode dopo il caso Infascelli, il legislatore non considera ancora la frode scientifica come un’entità giuridica.

 

image08Il secondo speaker dell’incontro è Giuliano Gragnaschi, segretario generale di research4Life, un’organizzazione di cui anche ANBI fa parte, che mira a portare la società a conoscenza di ciò che la comunità scientifica produce.

Gragnaschi sottolinea subito l’importanza della consapevolezza scientifica nelle istituzioni politiche “la nostra senatrice a vita Elena Cattaneo, farmacologa e divulgatrice scientifica, è una delle poche in grado di capire davvero l’importanza della ricerca, ma questo non basta perchè gli altri nostri decisori politici sono persone come le altre, che non possono avere competenze a 360 gradi ma hanno bisogno di essere informati, esattamente come tutto il resto della cittadinanza”. A causa delle falsificazioni e delle manipolazioni venute fuori nelle pubblicazioni scientifiche si è diffusa la sensazione che ci si possa fidare poco dei lavori scientifici. “Con questa situazione noi scienziati dobbiamo confrontarci e dobbiamo cercare di cambiare, perché se non riusciamo a cambiare la ricerca verrà sempre più penalizzata sulle decisioni politiche che si basano sul messaggio che arriva dalla società”. Passa poi a parlare di sperimentazione animale “Come sappiamo l’Italia ha recepito la Direttiva europea 2010/63 sulla sperimentazione animale in maniera sballata, inserendo delle modifiche che non sono compatibili con la direttiva stessa: di conseguenza non solo in Italia non si possono fare cose che negli altri paesi si possono fare, ma a breve cominceremo anche a pagare delle multe dalla commissione europea”.

Cita il sondaggio rivolto ai biologi dalla rivista Nature nel 2011, dove si evince che più del 90% della comunità scientifica ritiene il modello animale assolutamente necessario per fare degli avanzamenti nella sperimentazione. Nel 1939 quando cominciavano a usare i raggi x nelle prime applicazioni mediche, per visualizzare i vasi sanguigni si iniziò ad utilizzare il biossido di torio come mezzo di contrasto: durante la seconda guerra mondiale molti soldati in massa erano sottoposti a radiografie di questo tipo durante la visita medica ma nessuno si preoccupava della eventuale tossicità della procedura. Fu il Dott. Bogliolo che dimostrò allora la cancerogenicità del diossido di torio attraverso la sperimentazione su topi da laboratorio.

La percezione della popolazione italiana sulla sperimentazione animale è completamente diversa rispetto alla comunità scientifica. Il 60% delle firme raccolte da “Stop Vivisection”, un’iniziativa che chiedeva di bloccare il recepimento della direttiva europea nel 2012 per proteggere gli animali da esperimento, venivano proprio dall’italia. Confessa Gragnaschi “il problema è che la comunità biomedica è troppo chiusa al suo interno e non comunica all’esterno, in nessuno dei comunicati stampa scientifici che citano la scoperta di una nuova terapia c’è scritto – grazie alla sperimentazione preclinica in anmali da laboratorio -, è una cosa della quale si preferisce non parlare e poi ci si meraviglia che la popolazione sia contraria”. Chiarisce poi che oggi non è più lecito parlare di vivisezione: “il termine vivisezione fu citato per l’ultima volta in una legge italiana del 1 maggio 1941 dove effettivamente veniva normata la vivisezione degli animali a sangue caldo. nel 1986 è arrivata una direttiva europea che ha normato la sperimentazione su animali a fini scientifici, recepita con ritardo dall’Italia con il decreto legislativo 116/1992, ottima legge che però si dimenticava di dire che era abrogata la legge del 1941, cavillo che consentiva ancora di dire a chi voleva che la vivisezione esiste ancora. Fortunatamente nel 2010 uscì la nuova direttiva europea e l’Italia recependola, finalmente abroga la legge del ‘41, quindi di vivisezione non si parla più in quanto è esplicitamente vietata dalla normativa”.

Grignaschi chiude la sua presentazione presentando un pò di numeri, mostrando ad esempio che i modelli più usati come modello nella sperimentazione sono i roditori, topi e ratti rappresentano infatti l’89% dei modelli da laboratorio, la seconda specie sono i pesci (5,66%), ed a seguire uccelli, conigli, suini, anfibi e rettili, con percentuali inferiori al 3% ed infine i primati rappresentano solo lo 0,04%. “La gente crede che i primati non umani siano i primi utilizzati e questo è indice delle cattive informazioni che ci arrivano”. Se si osserva poi come il numero di animali da laboratorio utilizzati complessivamente in Italia sia minore rispetto alla media dei paesi europei, ci sia accorge di come questo sia indice della scarsa ricerca italiana, non solo quella che coinvolge animali.

 

Il mediatore Davide Ederle invita a questo punto a visionare il video youtube intitolato “Nessuno S.A.” pubblicato nelimage04 2013 da ANBI quando il recepimento italiano della normativa europea era ancora un tema caldo. Poi da la parola a Francesco Contegno di Aware Lab, che si occupa di sicurezza in laboratorio.

Recentemente c’è stata la prima persona infettata da HIV da un virus da laboratorio, ricorda Contegno, questo significa che anche se abbiamo tutto sotto controllo e lavoriamo bene in laboratorio il rischio di farai male c’è.

Racconta l’approccio che adotta AwareLab nella formazione degli operatori in laboratorio.

“Se vogliamo definire la sicurezza in laboratorio come la totale assenza di pericoli per l’ambiente e la collettività, ci rendiamo conto che è un utopia, pensiamo poi che ci sono anche rischi emergenti, perchè essendo la ricerca per definizione la creazione di qualcosa di nuovo mi creo anche dei rischi nuovi, ad esempio sulle nanoparticelle si sa poco, si sa che sono in grado di passare la barriera emato-encefalica ma non ci sono ancora studi sulla tossicità nell’uomo, tuttavia le stiamo usando ampiamente, dalle vernici ai nanomateriali”. Invita quindi a considerare la sicurezza come un “sistema all’equilibrio” fatto da quattro elementi, hardware (strumenti e attrezzatura) software (protocolli, regole), liveware (il comportamtneo personale) e l’environment (l’ambiente di lavoro); se uno degli aspetti vacilla si deve intervenire per far si che il sistema rimanga in equilibrio. Essendo il laboratorio un ambiente di lavoro i cui operatorio hanno un elevato grado di istruzione, il datore di lavoro spesso sovrastima il livello di formazione del ricercatore: “Il datore di lavoro pensa – è un laureato, saprà bene cosa dovrà fare in modo sicuro – ma le due cose spesso non sono correlate”. Denuncia infine il fatto che l’approccio alla sicurezza è spesso tecnicistico, ma bisogna anche far attenzione alla percezione del rischio, a come ci si relaziona al pericolo “In laboratorio spesso abbiamo una situazione di intensa focalizzazione perché le procedure sono complesse, lavoriamo con strumenti costosi e capita che si sottostimi il rischio; altre volte comportamenti che hanno un certo grado di rischio possano essere ricompensati dall’attenzione degli altri, quando questi sono adottati da persone che suscitano un senso di stima nei colleghi, i quali per emulazione li adottano a loro volta”. Dando per assodato che un certo grado di rischio c’è sempre, ciò che serve è la “consapevolezza situazionale” dell’operatore, per far si che le procedure di sicurezza diventino parte integrante dei procedimenti di laboratorio.

 

image05La Dott.ssa Fini, responsabile del laboratorio di studi preclinici e chirurgici dell’Istituto Ortopedico Rizzoli, presenta la ricerca ortopedica. Il Rizzoli nasce come un monastero, il Prof. Rizzoli lo donò alla città di Bologna e nel 1896 fu fondato l’ospedale che oggi è un Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) ovvero una struttura dove lavorano insieme ricerca preclinica e clinica ed anche assistenza. Oggi esso comprende 9 laboratori di ricerca storici (costruiti a fine anni ‘80) e 6 nuovi laboratori con finalità di ricerca industriale, trasferimento tecnologico e sviluppo sperimentale, per valorizzare anche da un punto di vista economico le potenzialità della ricerca. Oggi il Rizzoli esiste anche a Bagheria in Sicilia, con una clinica ospedaliera, affiancato ad un laoratorio di ricerca ospitato dall’università di Palermo. Insieme i laboratori hanno diverse aree di attività tra cui la biologia cellulare, istologia, test meccanici, ingegneria tissutale, studio di biomateriali, analisi di biolgia molecolare e ricerca in vivo.

“Abbiamo 6 linee di ricerca traslazionale, ovvero quella ricerca che va dal bancone della ricerca l paziente e torna indietro cercando di produrre risultati a breve termine” spiega la Dott.ssa Fini, “molte patologie dell’apparato muscolo-scheletrico richiedono l’impianto di protesi costituite da biomateriali e per studiare la sicurezza e l’efficacia si fanno test preclinici” . Spiega come i biomateriali usati oggi siano molto complessi di quelli utilizzati nella precedente generazione “ i materiali usati negli anni ‘70 erano definiti inerti, ovvero dovevano semplicemente non far male, oggi essi devono interagire coi tessuti circostanti, stimolando l’interazione con le cellule una volta impiantati. Abbiamo metodi per studiare se un materiale viene colonizzato dalle cellula in vitro, abbiamo modelli cellulari di tutte le cellule dell’apparato muscolo-scheletrico; lavorando vicino a a un ospedale riusciamo inoltre ad avere frammenti di tessuto di paziente su cui studiare le metastasi ossee dei tumori, sviluppando modelli di metastasi in vitro su cui testiamo i farmaci”.

Recentemente l’Istituto Rizzoli ha brevettato una nuova tecnica che permette di ottenere derma decellularizzato, ideale per il trattamento in interventi in cui è richiesta la rigenerazione di tessuti. “Siamo stati capaci di togliere le cellule del donatore mantenendo intatta la matrice extracellulare, è stato testato in vitro ed anche meccanicamente: è un esempio di successo di ricerca traslazionale ed è usato in clinica per il trattamento delle lesioni acute dei rotatori (spalla) che prima erano di difficile guarigione, oppure per risanare la cute nel caso di piaghe, ulcere, ecc”.

 

image00Francesca Bonifazi è presidente del Gruppo Italiano Trapianto del Midollo Osseo e racconta la ricerca clinica. “Essa si basa su studi randomizzati in cui pazienti vengono sottoposti in modo casuale al trattamento considerato standard o al trattamento sperimentale, partendo dal presupposto che il medico non sa cosa sia meglio per il paziente”. Dopo una piccola nota amara “In Italia c’è una normativa che paralizza, siamo sordi a molte direttive europee e poi quando le applichiamo sembra che ci diamo la zappa sui piedi, la ricerca clinica è penalizzata da una burocrazia che non tiene conto che essendo indipendente e no-profit non ha le stesse risosrse economiche di quella delle company farmaceutiche” la Dott.ssa Bonifazi introduce il trapianto di cellule staminali omopoietiche (un tempo chiamato trapianto di midollo osseo), che consiste essenzialmente in una trasfusione. All’inizio si fa una chemioterapia “c’è una chiara relazione tra dose e l’efficacia, dosi più alte producono una maggiore efficacia, ma questo si traduce con un aumento di tossicità e porta ad una una aplasia midollare, ovvero le cellule del midollo vengono uccise. A questo punto vengono date le cellule staminali del donatore, che sono di due tipi, le prime sono le staminali che ripristinano l’emopoiesi del paziente, le altre sono prevalentemente linfociti T, che possono riconoscere il tessuto estraneo ed attaccare il ricevente, quando questo avviene contro cellule sane del paziente si ha una delle prime cause di mortalità da trapianto, ovvero la malattia del trapianto contro l’ospite, la GVHD”. Risulta quindi necessario subito dopo il trapianto, inibire il sistema immunitario del ricevente, per evitare questa complicanza: “nel trapianto di organi solidi l’immunosoppressione dura tutta la vita, nel trapianto di midollo invece la tolleranza fa si che si possa interrompere l’immunospppraìessione, difattti abbiamo trapiantato anche il sistema immunitario del donatore”

Cita infine il Registro Italiano Donatore di Midollo Osseo (IBMDR) che dal 2008 lavora in maniera autonoma in circa 30 paesi nel mondo ed ha raggiunto più di 25.000.000 potenziali donatori.

Leucemie acute mieloidi e linfoidi rappresentano circa il 60% delle indicazioni per trapianto allogenico (ovvero da cellule provenienti da un donatore) da 55% al 70% di questi trapianti sono fatti con cellule staminali periferiche, che rappresentano quindi la principale sorgente.

image03Giovanna Cenacchi, vice coordinatore del CdL magistrale in Biotecnologie Mediche dell’Università di Bologna, parla di come sta cambiando questo corso di laurea. “Per quanto riguarda lo sviluppo economico futuro dobbiamo tener presenti due principi importati, la creatività e la formazione, senza creatività non ci sarà nuovo sviluppo economico e per arrivare ad avere una buona creatività bisogna avere un ottima formazione. Nonostante gli studenti escano dal nostro corso di laurea in biotecnologie mediche con una preparazione scientifica molto elevata, tuttavia il placement rimane a livelli bassi. alcuni articoli iniziano però a parlare di un futuro in cui ci sarà molto posto per i laureati, ma in ambiti nuovi come il technology transfer, il business development, ambiti che sono un pò estranei alla nostra idea di preparazione del biotecnologo”. Bisogna cominciare a cambiare mentalità, dichiara la Prof.ssa Cenacchi, si deve cominciare ad entrare nel mondo industriale per poter trovare una giusta collocazione.

Cita a tal proposito l’istituzione fin dal 2011 di una Summer School che si è mossa in questa direzione, cercando partners inglesi, spagnoli e bulgari e interagendo con professionisti nelle biotecnologie ed economisti, per creare un mini-corso che fosse un pò un approccio a questo mondo nuovo: “abbiamo dato un piccolo input agli studenti su cosa voglia dire managment del processo innovativo, proprietà intellettuale, aspetti regolatori, cosa significa fare un business plan, fare impresa; poi sulla spinta dei buoni risultati ottenuti dalla summer school abbiamo appena creato anche un Corso di Laurea in Biotecnologie Mediche modificato, inserendo un curriculum internazionale che si chiama Managment in Medical Biotechnology, in convenzione con l’Università di Oviedo in Spagna. Nel piano di studi del corso di biotecnologie spagnolo esistevano proprio discipline in questo campo economico, riguardanti la bieconomia e il managment in campo biotecnologico. I nostri studenti che dall’anno prossimo si iscrivereanno al secondo anno potranno scegliere se svolgere il corso convenzionale a Bologna o frequentarlo a Oviedo,ottenendo alla fine una laurea a doppio titolo italo-spagnola”.

 

image07Rita Fucci di Assobiotec è l’ultima a intervenire.

Sottolinea come oggi sia importante distinguere il biologo dal biotecnologo, che è nato come figura professionale alcuni anni fa proprio su input delle imprese, le quali avevano bisogno di biologi che sapessero attuare applicazioni industriali e che poi avessero capacità di interloquire con altre imprese di stampo non scientifico alle quali vendere le tecnologie, i prodotti ed i servizi prodotti dalle biotecnologie. “Le imprese italiane che attuano processi biotecnologici pur non essendo delle aziende biotech sono in costatante crescita, soprattutto perché ci sono alcune normative europee che spingono in questa direzione. I numeri che abbiamo fotografato lo scorso anno evidenziano un trend abbastanza positivo, con quasi 400 imprese che si occupano di biotecnologie e di queste 225 lo fanno in maniera esclusiva. Non sono tantissimi i posti di lavoro rispetto al numero di biotecnologi laureati oggi, ma questo ci deve spingere a coltivare quelle seconde e terze competenze per trovare nuove collocazioni anche in ambiti diversi da quello della ricerca. Nonostante sia fatta con mezzi molto ridotti la qualità della ricerca fatta in Italia da italiani è notevole, infatti siamo terzi al mondo come numero di ricercatori che hanno preso dei grant dall’European Research Council ma anche perchè nel 2015 con il sistema di finanziamento PNI (Premio Nazionale per l’Innovazione) che fa parte di Horizon 2020, l’Italia si è posizionata prima per numero di proposte di finanziamento depositate e terza per numero di finanziamenti accettati, questo è un segnale forte che testimonia la valenza della ricerca italiana. All’estero viene spesso richiesto di avere in un team almeno un ricercatore italiano, sia perchè abbiamo questo estro e questa genialità che ci portiamo dietro, definita dagli anglofoni capacità di problem-solving, sia perchè abbiamo delle fortissime competenze: le università italiane preparano non molto bene nei settori scientifici, l’unica cosa che ancora non ci riesce molto bene è trasformare questa ricerca in valore. Se volgiamo che la nostra ricerca abbia un mercato dobbiamo anzi tutto brevettare e poi valorizzare questi brevetti”.

Ha poi citato una serie di casi di successo di prodotti o servizi che le nostre imprese hanno portato sul mercato, dimostrando che la ricerca non deve rimanere nei laboratori ma possa essere fruibile da tutti i cittadini. Il Defibrotide, usato adesso per il trattamento delle trombosi venose profonde, è stato screenato e testato in Italia attraverso le biotecnologie, ricevendo l’autorizzazione per l’immissione in commercio nel 2013.. La Safinamide di Newron Pharmaceuticals, un impresa nata in Italia, nel 2015 ha ricevuto l’autorizzazione per l’immissione in commercio, per essere utilizzata come terapia aggiuntiva nel trattamento del Parkinson.

In Emilia-Romagna è stato ideato Holoclair della Holosem, una terapia cellulare a base di cellule staminali autologhe, che serve perla riparazione della cornea danneggiata nei pazienti ustionati. Sii tratta in questo caso della prima terapia avanzata approvata in Europa (L’Agenzia Italiana del Farmaco definisce con il termine “terapia avanzata” l’insieme della terapia genica, terapia cellulare e ingegneria tissutale). In ultimo la Dott.ssa Fucci ricorda il vaccino sperimentale anti-ebola, concepito e prodotto nei laboratori di Okairos a Pomezia, in collaborazione con il National Institute of Health degli Stati Uniti e recentemente approvato dal FDA per trials clinici nell’ uomo. Per quanto riguarda le white biotech, ovvero le biotecnologie industriali, sono state prodotte da aziende italiane alcune plastiche biodegradabili per i sacchetti che usiamo per fare la spesa, ed abbiamo addirittura esempi di aziende biotech che non sapevano di essere tali prima che Assobiotech non li notasse, come Archimede-rd che produce enzimi ricombinanti utilizzati nella produzione di anticalcare per lavatrice, vernici antivegetative, ecc. a dimostrazione che i biotecnologi, partendo dalla ricerca al bancone, potrebbero anche ambire a vedere il loro prodotto sullo scaffale di un supermercato.

 

image06Chiude le danze Simone Maccaferri, delegato nel consiglio direttivo ANBI, per presentare il portale BiotechJob. Si tratta di un portale di matching tra la domanda e l’offerta di lavoro nel settore biotech, partito fin dal 2011 quando si cercava ancora di capire cosa fossero le biotecnologie e che è stato modificato poi nel tempo fino ad arrivare ad oggi “abbaimo sviluppato una nuova versione che presentiamo oggi, per adeguarci ai canali di accesso al mondo del lavoro, che sono cambiati”. Il nuovo portale è stato sviluppato in collaborazione con ilBiodirecta, un database che raccoglie tutte le aziende biotech europee.

 

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