Minime quantità di un semplice composto chimico a basso costo sono in grado di ridurre la formazione di metano nello stomaco dei ruminanti, senza danneggiare la salute degli animali e senza alterare i prodotti alimentari da essi derivati. Lo studio del meccanismo d’azione specifico del composto, a livello biochimico, promette a breve un suo possibile uso sicuro per ridurre l’impatto dell’allevamento sul riscaldamento globale.

Cow

A cominciare dalla rivoluzione industriale, avvenuta 200 anni fa, e con la conseguente meccanizzazione di agricoltura e allevamento, la concentrazione atmosferica di metano è aumentata da 0,6 a 1,8 ppm (parti per milione). Anche se questo incremento è solo una minima frazione rispetto al corrispondente aumento di anidride carbonica, il metano è un gas serra con una potenza da 28 a 34 volte quella del biossido di carbonio e il suo contributo al riscaldamento globale non è trascurabile. Per questo motivo, paiono abbastanza allarmanti alcune stime verosimili che ritengono che attualmente siano presenti sul nostro pianeta 1,5 miliardi di mucche, 1 miliardo di pecore e 1 miliardo di capre allevate allo stato domestico. Questi animali sarebbero responsabili infatti, con i loro processi digestivi, dell’emissione di 100 milioni di tonnellate di metano per anno; corrispondenti al 20% di quello di origine antropica emesso in atmosfera.

Ma non tutto è perduto, dal momento che il metano ha un tempo di permanenza in atmosfera molto inferiore a quello dell’anidride carbonica e anche piccole riduzioni della concentrazione di questo gas potrebbero mitigare decisamente le modificazioni del clima in atto.

Per comprendere la produzione di gas serra nell’apparato digerente dei ruminanti bisogna comprendere che nei loro stomaci sono presenti vastissime comunità di funghi, protozoi e batteri che, in una serie di reazioni chimiche in cui ogni specie svolge un compito ben delimitato, digeriscono il materiale vegetale. Il risultato del processo è una certa quantità di composti organici, che possono essere assorbiti dal ruminante nutrendolo, e alcuni gas di scarto come anidride carbonica e idrogeno. Mentre la prima non è un problema, corrispondendo esattamente a quella assorbita dalle piante durante la loro crescita, l’idrogeno diventa quasi per intero la fonte di sostentamento di alcuni batteri che producono poi come scarto il metano, che viene espulso dall’animale in atmosfera e che contiene una quantità di energia stimata pari al 12% di quella contenuta nei vegetali di partenza. L’emissione di questo gas comporta quindi una perdita notevole di efficienza nella produzione di alimenti, come carne e latte, a partire da vegetali.

Di recente l’aggiunta ai mangimi di una piccola molecola chiamata 3-nitrossipropanolo (3-NOP), alla concentrazione 60mg per kg di mangime secco, ha dimostrato empiricamente non solo di poter ridurre del 30% l’emissione di metano da parte dei ruminanti durante la loro digestione, ma anche di poter incrementare l’aumento di peso ottenuto nei capi a parità di nutrizione. L’aggiunta dell’inibitore apparentemente non produce danni alla salute degli animali trattati, ne altera la qualità degli alimenti ricavati dagli stessi animali. La prima preoccupazione a seguito di questi risultati è stata comprendere il destino dell’idrogeno non più consumato nella produzione di metano. Non è infatti chiaro il possibile effetto del rilascio in atmosfera di questa sostanza. Ma l’analisi dei gas emessi dagli animali trattati con l’inibitore dimostra che la concentrazione di idrogeno non è superiore a quella presente negli animali non trattati. Dai dati disponibili pare che il surplus di idrogeno in parte inibisca gli stessi batteri che lo producono e in parte sia utilizzato da altri microrganismi non metanogeni.

Per poter comprendere in maniera più approfondita il processo di funzionamento dell’inibitore e raccogliere dati su un suo possibile utilizzo, Evert C. Duin e un gruppo di ricercatori di università statunitensi e europee, hanno esaminato nel dettaglio in vitro e con simulazioni al computer il funzionamento del 3-NOP. I risultati delle loro ricerche sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PNAS.

Le simulazioni al computer hanno permesso di chiarire a livello molecolare la struttura dell’enzima responsabile della produzione del metano nei batteri, altre alla sua interazione con l’inibitore, dati che potrebbero portare a sviluppare versioni più efficienti della molecola. Gli esperimenti in vitro hanno permesso di suddividere i batteri metanogeni del rumine secondo la loro sensibilità al 3-NOP, individuando le specie più o meno sensibili alla sua azione. I dati sono inoltre serviti per ipotizzare le possibili vie con cui il metabolismo del ruminante, o quello dei microrganismi suoi ospiti, si liberano dell’inibitore una volta ingerito.

Se il 3-NOP continuerà a dimostrarsi innocuo per gli animali d’allevamento, oltre che per i consumatori dei cibi da essi derivati, forse sarà possibile utilizzarlo a breve. Ma i dati raccolti potrebbero essere utilizzati per progettare inibitori ancora più sicuri ed efficienti e i gas serra prodotti dall’allevamento ridotti a zero, o quasi. [DP]

BIBLIOGRAFIA

Duin EC, Wagner T, Shima S, Prakash D, Cronin B, Yáñez-Ruiz DR, Duval S, Rümbeli R, Stemmler RT, Thauer RK, Kindermann M. 
Mode of action uncovered for the specific reduction of methane emissions from ruminants by the small molecule 3-nitrooxypropanol. 
Proc Natl Acad Sci U S A. 2016 May 2. pii: 201600298. [Epub ahead of print] PubMed PMID: 27140643.