L’analisi dei tessuti epatici di topi rientrati dallo spazio ha mostrato segni di danni e degenerazione tali da rendere necessario, quanto meno, approfondire il problema negli umani prima di poter prendere in considerazione missioni di lunga durata

.Superraton

Lo spazio esterno al nostro pianeta non è l’ambiente ideale per la vita terrestre, il principale problema per gli animali portati nelle varie missioni spaziali, in condizioni di microgravità, è la perdita di tessuto muscolare e l’infragilimento delle ossa che diventano soggette a fratture in modo simile a quanto accade, sulla terra, a individui molto anziani. Il problema riguarda da vicino anche gli umani: gran parte delle missioni finora messe in atto avevano come oggetto, almeno in parte, lo studio di soluzioni per invertire il fenomeno; come esercizi mirati per sollecitare anche in assenza di gravità muscoli e scheletro.

Se i problemi di locomozione sono il problema fisico più evidente, poca attenzione è stata finora dedicata agli altri organi e apparati, anche se le analisi del sangue svolte al rientro hanno evidenziato come lunghi periodi di missione producano negli astronauti sintomi paragonabili a quelli del diabete di tipo 2. Ma senza poter prelevare improbabili biopsie dirette dal corpo degli astronauti, o senza poter trasportare nello spazio strumentazione medica delicata, i ricercatori possono farsi solo un idea approssimativa delle condizioni dei vari organi interni in orbita. Mentre, in assenza di indizi su possibili patologie, la necessità di limitare il peso nella preparazione delle missioni rendono difficile proporre alle agenzie spaziali ricerche specifiche.

Karen R. Jonscher e i suoi colleghi delle università di Colorado, California e North Carolina, sono forse riusciti a superare questo circolo vizioso esaminando le biopsie del fegato di alcuni topi da laboratorio portati per 13 giorni nello spazio nel corso dell’ultima missione della navetta Space Shuttle, svoltasi nel luglio del 2011. I risultati della ricerca sono stati recentemente pubblicati sulla rivista scientifica PLOS one. I fegati dei topi rientrati dalla missione presentavano un iper-accumulo di grasso nelle loro cellule; la vitamina A, normalmente depositata in questo organo, risultava in gran parte consumata; mentre i marcatori chimici genetici e proteici indicavano uno stato di generale infiammazione. Nel complesso i dati accumulati sono coerenti con i sintomi mostrati dai pazienti affetti da Steatoepatite non alcolica (la più comune forma di patologia al fegato presente nei non bevitori o bevitori moderati di alcolici) così come si presenta poco prima di evolvere in una vera e propria fibrosi.

I dati non sono di per se risolutivi: gli stessi autori sottolineano da un lato, che i 13 giorni di viaggio non sono un periodo sufficiente a mettere in evidenza eventuali meccanismi di adattamento in grado di contrastare i danni al fegato di cui topi e umani potrebbero essere forniti. Dall’altro gli autori sottolineano come il forte stress subito al rientro dalla missione possa essere la causa della maggior parte dei sintomi osservati.

Ma nel complesso la ricerca suona come un campanello d’allarme, che consiglia di approfondire la fisiologia del fegato, animale e umano, in assenza di gravità prima di poter pensare a viaggi verso mete molto lontane dalla Terra. [DP]

BIBLIOGRAFIA

Jonscher KR, Alfonso-Garcia A, Suhalim JL, Orlicky DJ, Potma EO, Ferguson VL, et al. (2016)

Spaceflight Activates Lipotoxic Pathways in Mouse Liver.

PLoS ONE 11(4): e0152877. Doi:10.1371/ journal.pone.0152877